In questi mesi la pandemia da coronavirus ha inciso profondamente sui rapporti giuridici, spesso causando anche la risoluzione del contratto già stipultato tra le parti.
Il 31 gennaio 2020 il Consiglio dei ministri n. 27/2020 ha deliberato lo stato di emergenza sanitaria in Italia per l’epidemia da coronavirus.
Successivamente, l’11 marzo 2020 l’Organizzazione Mondiale per la Sanità ha dichiarato lo stato di “pandemia” per il virus COVID-19.
Questa situazione di emergenza sanitaria ha avuto un impatto molto importante sui rapporti commerciali.
In molti casi, il blocco delle attività produttive (c.d. lockdown) ha reso, infatti, più difficoltoso, se non addirittura impossibile, adempiere agli obblighi contrattuali.
Per capire quali potrebbero essere le conseguenze di una simile situazione, bisogna riassumere i principi generali previsti dal codice civile in materia di obbligazioni:
- Il debitore che non esegue la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (art. 1218 cod. civ.).
- L’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile (art. 1256, comma 1, cod. civ.).
- Se l’impossibilità è solo temporanea, finché questa perdura il debitore non è responsabile del ritardo nell’adempimento (art. 1256, comma 2, cod. civ.).
L’applicazione di questi principi ai singoli casi consente di accertare concretamente se lo stato di “pandemia” possa esonerare da responsabilità il debitore inadempiente.
Se si dimostra, infatti, che lo stato di pandemia ha avuto una portata tale da impedire definitivamente l’esecuzione della prestazione dedotta nell’obbligazione, questa si estingue.
Se invece la pandemia ha avuto un impatto solo temporaneo sull’esecuzione della prestazione, il debitore non sarebbe considerato responsabile del ritardo. In questo caso, egli rimarrebbe comunque obbligato ad eseguire la prestazione, non appena possibile.
La risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione
In molti casi la pandemia da coronavirus ha causato la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Qualora la prestazione sia diventata totalmente impossibile per una causa non imputabile al debitore, il contratto si risolve di diritto e quanto già corrisposto dovrebbe essere restituito (art. 1463 cod.civ.)
La causa non imputabile al debitore che rende impossibile la sua prestazione può essere il fermo delle attività produttive deciso con decreto governativo in conseguenza del coronavirus.
Ad esempio, si prenda il caso di due aziende che il 15 febbraio 2020 abbiano stipulato un contratto di vendita di un certo quantitativo di componenti elettronici da consegnare entro il termine essenziale del 15 marzo 2020.
Il fermo dell’attività produttiva della venditrice per effetto di un decreto del Governo potrebbe impedirle di rispettare il termine di consegna.
In questo caso, la venditrice non sarebbe responsabile dell’inadempimento, in quanto la propria prestazione è divenuta impossibile per una causa di cui non è responsabile.
Naturalmente, prima di giungere a questa conclusione, bisognerà esaminare attentamente tutte le circostanze del singolo caso concreto.
La risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione
Il coronavirus ha anche spesso causato la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione.
Nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, se la prestazione di una delle parti diventa eccessivamente onerosa a causa di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la medesima parte può chiedere la risoluzione del contratto (art. 1467, comma 1, cod. civ.).
Ad esempio, si prenda il caso di una locazione di un immobile ad uso commerciale, nella quale il conduttore abbia dovuto chiudere la propria attività a causa di un decreto emanato dal Governo in conseguenza del coronavirus.
In tal caso, il conduttore potrebbe chiedere la risoluzione del contratto, invocando l’eccessiva onerosità sopravvenuta del pagamento del canone.
Il conduttore dovrebbe quindi dimostrare che, a causa della pandemia, l’ammontare del canone è diventato eccessivamente oneroso rispetto al limitato godimento dell’immobile.
Per valutare la sussistenza dell’eccessiva onerosità, potrebbe essere necessario prendere in considerazione non solo i mesi di chiusura dell’attività, ma anche il successivo periodo di durata residua del contratto.
Occorrerà quindi valutare, caso per caso, se l’emergenza sanitaria e i conseguenti provvedimenti restrittivi abbiano determinato un aggravio patrimoniale per il conduttore, tale da alterare sostanzialmente l’originario rapporto contrattuale, facendo diminuire o cessare l’utilità della controprestazione (il godimento dell’immobile).
In ogni caso, la parte che avrebbe dovuto ricevere la prestazione divenuta eccessivamente onerosa (il locatore) potrebbe evitare la risoluzione del contratto, offrendo all’altra (il conduttore) di modificarne le condizioni (art. 1467, comma 2, cod. civ.).
La pandemia da coronavirus come causa di forza maggiore
In linea generale, la pandemia da coronavirus potrebbe essere invocata come causa di forza maggiore che determina lo scioglimento del vincolo contrattuale.
Più precisamente, la parte inadempiente potrebbe liberarsi da responsabilità, dimostrando che il proprio inadempimento è stato causato da una forza maggiore.
La forza maggiore comprende avvenimenti straordinari e imprevedibili, estranei alla sfera di controllo della parte contrattuale (art. 1467 cod. civ.).
Bisogna quindi accertare se, nel singolo caso concreto, la pandemia da coronavirus possa essere considerata una forza maggiore che ha impedito alla parte di eseguire la propria prestazione.
Non c’è dubbio che la pandemia sia un evento del tutto straordinario ed estraneo alla sfera di controllo del singolo.
Per quanto riguarda l’imprevedibilità, bisogna fare riferimento al momento della stipulazione del contratto.
Più precisamente, se al momento della conclusione del contratto una persona media, che si trovasse nelle medesime condizioni dell’obbligato, non avrebbe potuto prevedere il verificarsi dell’evento pandemia, allora quest’ultima va considerata forza maggiore.
Da ultimo, si segnala che, con circolare n. 238/13 del 1° aprile 2020, il Ministero per lo sviluppo economico ha attribuito alle Camere di Commercio il compito di rilasciare, su specifica richiesta delle imprese, una dichiarazione attestante la forza maggiore qualificata dall’epidemia in atto e dalle conseguenti restrizioni imposte dalle autorità nazionali.