Nell’ultimo decennio il numero di casi di fallimento è aumentato notevolmente. La crisi economica, infatti, ha messo in forte difficoltà una grande quantità di imprese e molte di queste non sono riuscite a sopravvivere alle difficili condizioni del mercato post 2008. Questo scenario è stato caratterizzato da una forte contrazione degli ordini, con una conseguente riduzione del fatturato delle aziende. Molte di quelle che erano già in precedenza fortemente indebitate non sono più riuscite a pagare i propri fornitori e/o le banche che le finanziavano; queste imprese sono così diventate insolventi.
Il presupposto del fallimento: l’insolvenza del debitore
Si parla di stato di insolvenza quando il debitore non è più in grado di far fronte ai debiti che ha contratto.
Di regola, quando egli non paga un singolo debito alla scadenza, si parla di inadempimento. Lo stato di insolvenza è una situazione più grave, di generale difficoltà del debitore e si manifesta attraverso una pluralità di inadempimenti.
Le imprese possono contrarre una molteplicità di debiti. Esse infatti hanno necessità di acquistare i prodotti e i servizi per l’esercizio della loro attività; inoltre, si indebitano con le banche per ottenere i finanziamenti che servono per sostenere tutte le spese indispensabili per svolgere la propria attività.
Può accadere che un’impresa, dopo aver accumulato diversi debiti, subisca un calo di fatturato; se questa situazione si protrae per troppo tempo, aggravandosi, l’azienda può raggiungere un “punto di rottura”.
Ciò può accadere quando il suo fatturato e/o il suo patrimonio non è più sufficiente a pagare le somme dovute ai creditori. Il protrarsi di questa situazione può quindi causare una generale incapacità dell’impresa di pagare regolarmente i propri debiti; essa entra così in uno stato di insolvenza.
Il fallimento e le altre procedure concorsuali come rimedi allo stato di insolvenza del debitore
Di fronte a un singolo inadempimento del debitore il creditore può avviare contro quest’ultimo una procedura esecutiva individuale. In tal caso, come già spiegato in un precedente articolo, egli può infatti pignorare i beni del debitore. Quando invece gli inadempimenti di quest’ultimo si moltiplicano e il debitore si viene a trovare in uno stato di insolvenza, lo stesso può essere sottoposto a una procedura esecutiva concorsuale; il fallimento è la più diffusa e importante di queste procedure.
Lo scopo delle procedure concorsuali non è soltanto quello di consentire ai creditori di ottenere il pagamento delle somme loro dovute. Esse servono anche per porre un freno allo stato di insolvenza del debitore e per impedire un suo ulteriore aggravamento.
Il moltiplicarsi degli inadempienti del debitore, infatti, danneggia non solo i suoi creditori, ma anche lo stesso debitore e, più in generale, il mercato in cui egli opera. Per questi motivi, le procedure esecutive concorsuali possono essere attivate su iniziativa non solo del creditore, ma anche dello stesso debitore e, in alcuni casi, del pubblico ministero.
Le procedure concorsuali più importanti sono: il fallimento, il concordato fallimentare, il concordato preventivo, gli accordi di ristrutturazione, la liquidazione coatta amministrativa, l’amministrazione straordinaria. A queste si sono aggiunte più recentemente le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento. Lo scopo di queste ultime è quello di tutelare il debitore; ad oggi esse sono: il piano del consumatore e la liquidazione del patrimonio del debitore. Molte di queste procedure concorsuali sono state oggetto di una recente e radicale riforma, che entrerà pienamente in vigore soltanto nel settembre del 2021.
Le imprese soggette a fallimento
Ognuna delle procedure concorsuali può essere attivata soltanto nei confronti di determinate categorie di debitori. Il fallimento, così come il concordato preventivo, può coinvolgere soltanto gli imprenditori commerciali che si trovino al di sopra della soglia dimensionale prevista dalla legge.
In particolare, può essere soggetto a fallimento soltanto l’imprenditore commerciale che abbia avuto nell’ultimo triennio:
- un attivo patrimoniale annuo non inferiore a € 300.000;
- ricavi lordi annui non inferiori a € 200.000;
- debiti complessivi, anche non scaduti, non inferiori a € 500.000.
La dichiarazione di fallimento
Il Tribunale dichiara con sentenza il fallimento dell’imprenditore commerciale, su richiesta di un creditore, del debitore o del pubblico ministero.
Depositata la richiesta, il Tribunale deve compiere alcuni accertamenti (c.d. istruttoria prefallimentare) per verificare la sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento. In particolare, il Tribunale deve accertare che:
- il debitore sia un imprenditore commerciale con i requisiti dimensionali sopra indicati;
- il debitore si trovi in stato di insolvenza, non sia cioè più in grado di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni;
- i debiti scaduti e non pagati, risultanti agli atti dell’istruttoria, siano pari ad almeno € 30.000.
Soltanto in presenza di tutti questi presupposti il Tribunale dichiara il fallimento dell’impresa debitrice; in tal caso, nomina un Giudice Delegato e un Curatore. Il primo ha funzioni di vigilanza e controllo sulla regolarità della procedura; il secondo ha l’amministrazione del patrimonio del fallimento, sotto la vigilanza del Giudice e dei Comitato dei creditori.
La procedura e il pagamento dei creditori
La sentenza di fallimento priva il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni; essa inoltre “congela” tutti i suoi rapporti giuridici.
In linea di massima, nel corso della procedura, il Curatore fa un inventario del patrimonio del fallito; vengono poi accertati i debiti di quest’ultimo e il suo patrimonio viene liquidato; da ultimo, il ricavato della liquidazione viene utilizzato per soddisfare i creditori.
All’inizio della procedura, il Curatore avvisa i creditori dell’avvenuta dichiarazione di fallimento e li invita a presentare le richieste di ammissione dei rispettivi crediti. Egli esamina poi le loro domande e le sottopone al Giudice Delegato; quest’ultimo decide quali crediti ammettere al c.d. passivo del fallimento.
Contestualmente, il Curatore liquida il patrimonio del debitore; ciò può avvenire, ad esempio, vendendo all’asta i sui beni mobili o immobili, vendendone il marchio, l’azienda o un ramo di essa. Le somme così ricavate entrano nel c.d. attivo fallimentare e serviranno per pagare, per quanto possibile, i crediti ammessi dal Giudice al c.d. passivo fallimentare.
I crediti vengono infine pagati secondo precisi criteri stabiliti dalla legge. Questa distingue i crediti in due macrocategorie: quelli c.d. privilegiati e quelli c.d. chirografari. I crediti privilegiati hanno diritto di precedenza rispetto a quelli chirografari; questi ultimi vengono infatti pagati soltanto se sono stati precedentemente soddisfatti per intero i crediti privilegiati.
Appartengono a quest’ultima categoria, ad esempio, i crediti da lavoro (stipendio, TFR, ecc…) e quelli garantiti da ipoteca. Purtroppo, accade spesso, che, a causa dell’insufficienza dell’attivo fallimentare, i crediti chirografari vengano pagati solo in minima parte o, addirittura, in alcuni casi non vengano pagati del tutto.
La chiusura della procedura e l’esdebitazione del debitore
Da ultimo, il Tribunale dichiara con decreto la chiusura del fallimento. Contestualmente o successivamente, su richiesta del debitore proposta entro un anno dalla chiusura, il Tribunale può, in alcuni casi, dichiarare l’esdebitazione del debitore persona fisica. In altre parole, se ricorrono le condizioni richieste dalla legge, l’imprenditore fallito (non la società) viene liberato dai debiti residui nei confronti dei creditori ammessi al passivo fallimentare, che non siano stati soddisfatti.
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Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano Libero nel blog “I consigli di un civilista”.
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